Il bando MiBACT per il patrimonio culturale italiano

Ieri pomeriggio il Ministero dei beni culturali ha pubblicato il bando, di cui si era sentito parlare da qualche tempo (ad esempio da parte di alcuni politici e, ovviamente, dello stesso ministro Bray), relativo alla selezione di 500 giovani da formare per l’inventariazione e la digitalizzazione del patrimonio culturale italiano. La notizia è apparsa anche sulla pagina Facebook ufficiale del Ministero, dove rapidamente hanno cominciato ad affollarsi i commenti. Questa mattina, a non molte ore dall’annuncio, hanno superato la novantina.

Si tratta di una notizia buona, cattiva, così così?

Qualcosa di buono ne uscirà: qualcuno farà un’esperienza interessante, qualche istituto tirerà il fiato e recupererà lavoro rimasto indietro, qualche contatto verrà stretto, qualche curriculum si arricchirà.

A quali condizioni? Avere meno di 35 anni, una laurea, oppure un diploma di archivistica, col massimo dei voti, una qualificazione B2 in inglese, un impegno previsto per un monte orario settimanale dalle 30 alle 35 ore settimanali, senza successivi obblighi di assunzione, per un compenso lordo di 5000 euro per 12 mesi.

Ecco il commento più apprezzato fino ad ora, che dà un’idea (pacata) della reazione espressa su Facebook (generalmente più colorita):

“Che non sarebbe stato un concorso pubblico per assunzioni vere e proprie ma solo un modo per reclutare manovalanza qualificata da sottopagare per un anno era chiaro già da agosto, quando hanno iniziato a parlare del bando.
Il punto è che i requisiti richiesti sono qualifiche da eccellenza, ed è davvero triste che questo sia il trattamento per laureati con “minimo” 110/110 e con una certificazione B2 di inglese… il tutto senza considerare poi che non tutti possono economicamente permettersi certificazioni serie… E, in merito alle lauree richieste per partecipare al progetto, c’è da dire che se vengono accettate TUTTE le lauree di area umanistica non vi è alcun riguardo per le lauree in Beni culturali. Ennesimo schiaffo in faccia. Ma grazie comunque per l’opportunità.”

Il ministro Bray è stato fra i primi, dopo tanto tempo, a parlare di cultura e a proporre iniziative concrete e gliene va dato atto. Ma non si può non dire che un progetto massivo di sfruttamento di questo genere denuncia una cosa tristemente semplice, e cioè che in Italia non esiste alcun futuro né per la cultura, né per chi non vorrebbe altro che lavorare in questo campo. O almeno alcun futuro supportato dalle istituzioni pubbliche. Ci saranno persone felici di partecipare e io sono la prima ad augurare loro di fare una bella esperienza. Ma che si chieda a delle persone adulte di lavorare per un netto mensile che andrà intorno ai 300 euro con un orario sostanzialmente simile a quello dei colleghi dipendenti che si troveranno a fianco è il segno di uno sfascio definitivo e anche di un grado di immoralità spaventosamente alto.
(Questo è un paese in cui fa paura vivere? Sì).

Una riflessione secondaria sulla comunicazione pubblica via social media. Questo caso mi pare dimostri perfettamente che esiste un punto limite che dovrebbe farci interrogare tutti su come far evolvere le nostre piccole e grandi pagine istituzionali su Facebook o su altre piattaforme:  se le politiche di un ente sono indifendibili, la comunicazione social rischia di essere solo un pro forma per l’istituzione che la mette in piedi, e uno sfogatoio per chi legge e commenta. Certo poter insultare un ministero in diretta e in pubblico dà sempre maggiore soddisfazione che imprecare contro lo schermo della tv, ma ci vogliamo davvero accontentare di questo? Siamo ancora fermi – nel migliore dei casi – alla riflessione su come gestire al meglio la social media crisis? Davvero la rete la vogliamo usare così?

Credo che ci troviamo in uno spazio vuoto, in una specie di terra di nessuno della comunicazione esattamente a metà fra profili social ancora intesi come vetrine promozionali in cui l’ente elargisce informazioni col sorriso forzato della televendita e aspettative del pubblico che iniziano ad essere completamente divergenti. Di solito è consapevole di questo “stare in mezzo” chi i profili li gestisce, ma mai il suo datore di lavoro (leggi: responsabile/dirigente/assessore/sindaco). Avrei anche voglia di dire chiaramente che, per me, se dobbiamo restare alla fase del sorriso forzato forse la partita non conviene affatto e tanto varrebbe chiuderli, questi benedetti profili degli enti pubblici.

13 pensieri riguardo “Il bando MiBACT per il patrimonio culturale italiano”

  1. Quando valutano queste iniziative, i laureati in materie umanistiche dovrebbero innanzitutto chiedersi: quali strumenti mi sono stati forniti per valutare le potenzialità di un certo mercato del lavoro e quelle che sembrano iniziative per entrarci, anche se dalla porta di servizio? Se gli strumenti di analisi che servono per questa analisi non sono stati forniti (e purtroppo temo che sia così, sempre), allora bisogna farseli al più preso per riuscire a valutare queste iniziative. E innanzitutto occorre ribaltare la prospettiva. Il punto non è chiedersi quante cose utili potrò imparare, MA valutare il mercato del lavoro costituito dagli enti pubblici che lavorano nell’ambito culturale in termini di offerta di lavoro. Le domande da farsi sono semplici, crude, senza scampo, e innanzitutto quantitative: quante assunzioni in media ha fatto quel mercato negli ultimi 2/3 anni? Quali risorse economiche e assenza di vincoli di legge hanno i vari enti che lo compongono per poter assorbire nuovo personale? Quanto precariato esiste già dentro quegli enti in attesa di qualcosa? Bisogna tirar fuori questi numeri. E se le risposte a queste semplicissime domande sono negative, allora dovremmo avere il coraggio di ammettere che con iniziative come queste forse passerò anche un bell’anno, forse imparerò delle belle cose, ma non mi avvicinerò al mercato del lavoro. Semmai continuerò a starne lontano e alla fine avrò anche un anno in più. E il fatto che quel mercato cerchi di attirarmi come può, è nella logica delle cose. Sono io che devo imparare a valutare freddamente le cose. Se ci fosse un corso di perfezionamento, un master qualsiasi dove venisse insegnato a confrontarsi con le prospettive reali del mercato del lavoro nell’ambito culturale, dove venissero tirati fuori e analizzati dati sull’occupazione, sulle risorse economiche, sarebbe molto più utile di tutto il resto perché insegnerebbe a valutare criticamente la realtà in termini di mercato del lavoro e non in termini di semplice crescita personale.

  2. ogni volta Virginia è come se parlassi veramente per tutti noi.
    Di solito mi lascio la lettura di questi articoli per il lunedì mattina.
    Ed ogni lunedì mi chiedo: ma che possiamo fare, noi, che cosa possiamo fare ?
    Questa frase che tu scrivi –
    Di solito è consapevole di questo “stare in mezzo” chi i profili li gestisce, ma mai il suo datore di lavoro (leggi: responsabile/dirigente/assessore/sindaco). –
    questa frase è veramente uno dei nodi della questione.
    Passando al bando ?
    Se vuoi far fare una bella esperienza e vuoi pagare 300 euro va benissimo allora si richiedano 10 ore di lavoro settimanali non 30/35 ed allora si, tutto avrebbe il sapore di una bella esperienza e non l’amarezza dell'”usa e getta”
    ciao cristiana

    1. Grazie Cristiana.
      Esattamente: o cali le ore, oppure paghi decentemente meno persone. Si tratta semplicemente di fare delle scelte e di non fare ricadere il peso delle proprie politiche sui cittadini.

  3. Attenzione che c’è un’imprecisione: la laurea prevista non è solo in Archivistica, ma comprende una sfilza di discipline, che spaziano dalle lettere all’economia alla giurisprudenza (è l’allegato 2 del bando).

  4. Il decreto è una cagata pazzesca e francamente l’unica cosa interessante che potrebbe suscitare è un boicottaggio umanistico generalizzato!

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