Ieri mattina, intorno alle 9, come tutti sanno è partita la scossa di terremoto che ha aiutato a distruggere quello che il terremoto di dieci giorni prima aveva già colpito. Ero a casa e pensavo a godermi una colazione tranquilla, visto che sapevo di dover andare al lavoro nel pomeriggio. Ad un settimo piano di un edificio fortunatamente in cemento armato si sentono le scosse a partire da una magnitudo 2, le proporzioni ve le potete quindi immaginare. La colazione è saltata.
Intorno alle 13 arrivo in ufficio, giusto in tempo per salire al quarto piano, accendere il computer e rendermi conto che sento un’oscillazione troppo forte per essere quella, comune, dell’autobus che passa lì vicino. Scala metallica antisismica, uscita di sicurezza, cortile del Pozzo, il cortile interno del Palazzo Comunale ampio abbastanza da farti sentire all’aperto. Biblioteca evacuata. In pochi minuti sappiamo che, per quel pomeriggio, non si apre più. Proprio lì in cortile faccio partire un tweet sull’account della biblioteca e un aggiornamento di status su Facebook, secchi, di pura informazione. Riprendo la strada di casa, mi tengo sul lato più esterno dei portici, attraversando le strade ho la sensazione di dover controllare in alto, se qualche cornicione mi sembrasse insolito.
A metà strada penso di dover controllare le reazioni ai miei post. Sul mio cellulare vedo segni immediati di ritweet, ma anche qualche richiesta di chiarimenti. Mi viene in mente la frase tipica che sentiamo al telegiornale in casi come questi: si chiude per motivi precauzionali. Aggiungo quindi, in piedi in via Indipendenza, che la biblioteca è chiusa causa terremoto, ma per motivi precauzionali. Niente danni. Intendo dire niente incidenti, perché se di danni ce ne siano stati lo sapremo solo il giorno dopo. Ma vengo capita.
Arrivo a casa – da capo al settimo piano – e ho un mal di testa che lo vedo dipinto. Accendo il mio pc, e per qualche ora non riesco a staccarmi dagli account istituzionali che seguo. Ho bisogno di tenermi impegnata, certo, ma poco a poco qualcos’altro si fa strada. Cerco di trasformarmi in una pura voce di servizio, rilancio tutto quello che rilancia l’account del Comune su Twitter, tenendomi più leggera su Facebook. Continuo a vedere aumentare i ritweet, in un numero impressionante. Addirittura cresce il numero delle persone che ci seguono. Cerco di non fare altro che essere utile. E sobria. La sera al telegiornale sento che alcuni edifici sono stati chiusi anche a Bologna, per motivi precauzionali.
Seguo la parte social media per la comunicazione della mia biblioteca ormai da un periodo sufficiente per avere fatto diversi esperimenti, essermi posta molte domande, avere trovato mi pare una misura su tono, contenuti, cadenze. Ma è inutile negare che si tratta di un lavoro che ancora si impara giorno per giorno.
Le biblioteche su Facebook ormai sono comuni anche in Italia, fatta eccezione per alcune assenze che cominciano a risultare clamorose. Nei corsi dedicati a biblioteche e social network si parla soprattutto delle pagine Facebook, piattaforma che gli italiani hanno proclamato come la prima in classifica. Mi piacerebbe che si parlasse (e si praticassero un po’ di più) i blog di biblioteca, che sono però sicuramente più onerosi da gestire. Primi ad arrivare nel tempo, restano ancora un po’ lontani dalle nostre possibilità attuali (con alcune eccezioni di cui vorrei parlare in futuro).
Di Twitter si parla invece come dell’ultimo arrivato: pochi bibliotecari lo usano personalmente, pochissimi gli account istituzionali di biblioteche italiane che sono riuscita a trovare. Per chi fosse interessato, ne ho fatto una lista pubblica, lista assolutamente iniziale e che spero mi aiuterete a popolare con le vostre segnalazioni.
La sensazione di ieri, e il lavoro che ancora stamattina cerco di fare, questa volta lavorando maggiormente su Facebook, cercando risorse utili a capire che cosa stia accadendo oltre a rilanciare le notizie ufficiali e i comunicati stampa del Comune, arriva a coagularsi in una riflessione più precisa.
C’ è una citazione che adoro, tratta da un articolo che cito sempre nei miei corsi, Digital Librarianship & Social Media: the Digital Library as Conversation Facilitator, di Robert A. Schrier, in ‘D-Lib Magazine’, July/August 2011, V. 17, N. 7/8:
“Un importante beneficio che il social networking fornisce ai bibliotecari digitali risiede nel fatto che consente loro di dare un volto umano alle loro collezioni. Molti bibliotecari pensano che usare i social media sia un buon modo per pubblicizzare il nome della loro biblioteca. Ma questi cosiddetti brand-evangelist non ottengono molto a parte il mostrare ai loro clienti quanto siano egocentrici e interessanti soltanto a promuovere ciò che la biblioteca ritiene valga la pena promuovere.” (Trad. mia)
La sensazione di ieri è che per la prima volta mi sento sui social network istituzionali assolutamente utile. Non promuovo nulla, faccio un lavoro di tipo diverso. Certo non sono io che cambio le cose, non offro un servizio indispensabile, nulla di simile. Ma è la biblioteca che parla per essere utile alla sua comunità, e non per parlare di se stessa. E’ la biblioteca che diventa il nodo di una rete di persone che hanno bisogno di sentirsi impegnate durante quella lunga giornata, che vogliono incontrarsi da qualche parte sulla rete, che vogliono informarsi. Io per loro non sono che uno strumento (o almeno ci provo).
E’ anche una sensazione che fa incontrare felicemente due insoddisfazioni: da una parte il sospetto che lavorare sui social network possa alla fine rivelarsi una perdita di tempo, il dubbio che si tratti di un’attività autoreferenziale, di una moda a cui ci siamo adeguati portando via del tempo a qualcosa di più utile, di più sostanziale (diciamo pure il sospetto da cazzeggio in rete). Dall’altra, le tante riflessioni fatte intorno all’Atlas di Lankes, al suo invito a destrutturare il mestiere del bibliotecario e ricostruirlo da capo ad immagine e somiglianza di una specifica comunità. Tutto fantastico a dirsi ma… come? Che cosa significa in pratica?
Io non sono un social media manager, quest’espressione definisce in senso stretto un esperto di strategie di comunicazione che è lontano anni luce dall’apparire nel mondo quotidiano della pubblica amministrazione. Sono una community manager, che più modestamente sta sul pezzo e programma un’intera settimana di uscite sui social, cerca per le domeniche il video piacevole ma che non sia stupido, si preoccupa di rispondere a tutti anche quando non ha la responsabilità che sarebbe necessaria per farlo, media fra le mille cose che una biblioteca potrebbe voler comunicare. Community manager, anche questo un termine sospettabile di cazzeggio in rete? Beh, forse no. Forse da ieri non lo penso più. Forse un modo imperfetto e temporaneo per destrutturare il mestiere e guardare in faccia una comunità è oggi, nell’entusiasmo dei social media all’inizio della loro strada, essere degli onesti community manager. In fondo, non si tratta che di cercare di essere utili senza dare per scontato niente, neanche la biblioteca. Aspettando che le scosse se ne vadano.
P.S. Tutto questo non sarebbe vero senza il lavoro di Liù e Simona. Grazie, Liù e Simona.