Aaron’s Laws: una lezione

In questo weekend, prendetevi un po’ di tempo per guardare il video di Aaron’s Laws – Law and Justice in a Digital Age, la lecture tenuta da Lawrence Lessig alla Harvard Law School il 19 febbraio. Fatelo, anche se è abbastanza lungo (dura quasi un’ora e mezza). Fatelo anche se non siete degli appassionati di copyright e di proprietà intellettuale. Fatelo anche se pensate che assistere ad una lezione di diritto sia un modo stravagante di occupare il proprio tempo libero.

Fatelo, perché si tratta di una meravigliosa, parlante introduzione al copyright e ai suoi problemi. Perché ci vedrete un modo molto americano (e qui mi inchino) di parlare di grandi temi intellettuali e di vita reale, con la naturalezza di chi sa che non c’è una vera distinzione fra le due cose. Perché è, di qualsiasi campo vi occupiate, un invito a costruire ponti fra la propria attività professionale e la propria vita di cittadini. E infine, perché si tratta di uno degli esempi più lampanti che io abbia mai visto di ottimismo della volontà (ma per sapere perché dovete davvero arrivare alle ultime, ultimissime parole di Lessig).

(Per saltare l’introduzione, andate al minuto 08:50. Grazie ad Aubrey scopro che esiste anche una trascrizione del testo, qui)

Pirati prima di Napster

“E’ l’inizio di un nuovo secolo, e l’industria musicale si scopre in crisi. Nuove tecnologie, nuovi mezzi di comunicazione e strategie commerciali innovative stanno mettendo alla prova quei principi di copyright che, a memoria d’uomo, l’avevano fin lì sostenuta. Grazie a un processo rivoluzionario, che consente di ottenere riproduzioni perfette, i ‘pirati’ sfornano canzoni in copia a ritmi pazzeschi. E la gente non ci vede niente di male nell’approfittarne. La loro pubblicità, dopo tutto, parla di un’industria musicale basata tradizionalmente sul monopolio e sullo sfruttamento dell’artista come dell’ascoltatore. I pirati, di contro, ostentano tutto il loro amore per la libertà, attribuendosi nomi come People’s Music Publishing Company e praticando prezzi accessibili a tutti. Il loro obiettivo, proclamano, è quello di diffondere la musica presso una fascia di pubblico che altrimenti non potrebbe goderne. In molti casi non si tratta di imprese commerciali nel senso classico del termine, quanto di attività ‘casalinghe’, spesso gestite da adolescenti e condotte fuori dagli spacci per alcolici o dalle camere da letto. Come reazione, le aziende ‘dot.com’ fiorite di recente fanno causa comune al fine di premere sul governo perché la legge sul copyright venga assolutamente irrigidita – cosa che molti percepiscono come una minaccia alle libertà civili e ai principi della privacy. Nel frattempo provvedono a farsi giustizia da sé, ricorrendo anche a tattiche clandestine (non escluso il ricorso alla forza) per fronteggiare i pirati. Sostengono di essere costrette a simili misure perché la crisi legata alla pirateria mette in dubbio l’esistenza stessa dell’industria musicale.
Se tutto questo ci suona in qualche modo familiare, non è perché descrive i grattacapi provocati al giorno d’oggi ai giganti dell’intrattenimento dalle nuove iniziative libertarie online. Quello ora visto è un ritratto del primi del XX secolo, non del XXI. Un’epoca in cui l’industria musicale si trovò ad affrontare un pericolo più serio di quelli superati prima di allora (e anche dopo, almeno fino agli sviluppi più recenti).”
(p. 428-429)

In quasi tutti i corsi che ho tenuto è sempre stata presente una parte dedicata al copyright, spesso limitata a qualche semplice consiglio su che cosa si potesse pubblicare sulle pagine web della biblioteca e ad un invito ad usare licenze “libere”. Nell’ultimo, ovvero il primo specificamente dedicato agli ebook in biblioteca, la cosa si è decisamente complicata: niente è più come lo conoscevamo all’epoca della sola stampa, e ogni passo che muoviamo nel fornire risorse digitali ai nostri utenti rischia di farci fare un errore senza che ne conosciamo esattamente neppure il motivo.

Inoltre, mi è capitato di recente di trovarmi in posizioni apparentemente schizofreniche: una volta mi è toccato difendere il DRM come strumento di lavoro che i bibliotecari dovrebbero tenere in considerazione prima di prendere posizioni ideologiche pro o contro di esso. In quest’ultimo corso, invece, mi è stato fatto notare che risultavo un po’ troppo schierata contro la “chiusura” di formati, device e possibilità di utilizzo dei contenuti. A ripensarci, devo sicuramente trovare un modo più chiaro di esporre alcuni temi, ma non sono pentita di avere assunto nessuna di queste due posizioni perché – quanto meno – credo di non aver mai semplificato una situazione che è davvero complessa.

Nella divulgazione non specialistica come quella a cui ha accesso una non esperta come me, la storia della pirateria intellettuale viene spesso fatta partire dagli anni novanta, col caso perfettamente esemplificativo della musica digitale scambiata in peer to peer e della mutazione che questo fenomeno ha prodotto in un intero settore dell’industria culturale. E questa sì, è davvero una semplificazione.

Una cosa che ho notato parlando con tanti bibliotecari (non gli esperti di open access, ma i bibliotecari nella loro generalità, in carne e ossa, pregi e difetti compresi), è che si tende ad immaginare un divario netto fra il mondo della documentazione a stampa e il mondo post internet come se questa fosse la frattura fondamentale che ha fatto entrare il tema della proprietà intellettuale nella nostra professione. Come se fosse esistito un prima in cui tutto era libero e chiaro e un poi in cui perfide concentrazioni reazionarie cercano di mettere i bastoni fra le ruote ad ogni tentativo di diffusione della conoscenza. Intendiamoci, le perfide concentrazioni reazionarie esistono davvero, quello che non esisteva, però, era il mondo del prima in cui tutto era lecito. Di fronte a proposte come un prestito digitale coperto da DRM che rende illeggibile un file dopo 14 giorni, pagato a prezzo abbastanza alto e scelto da un catalogo molto limitato di titoli che l’editore ci mette a disposizione, nel formato che non abbiamo scelto noi e così via, tendiamo a dimenticare intere liste di limitazioni con cui abbiamo convissuto e ancora conviviamo: i limiti alla possibilità di fotocopiare, il prestito a pagamento, i prezzi di copertina comunque imposti dagli editori, gli sconti decisi dal solo gioco della concorrenza tra fornitori, i limiti alla prestabilità dei DVD per non ledere i diritti di soggetti commerciali – i videonoleggi – che nel frattempo sono spariti dal mercato per motivi ben diversi dalla concorrenza delle biblioteche.

Ma quello che sfugge in modo ancora più profondo è che, qualunque forma abbiano assunto i nostri servizi, quella forma è stata sempre influenzata da un gioco di corsi e ricorsi storici che hanno discusso, contrapposto, modellato e rimodellato continuamente, almeno a partire dal XVII secolo in avanti, le possibilità della diffusione dei contenuti intellettuali, distribuendo l’accusa reciproca di pirateria a praticamente tutte le parti in gioco, difese o meno che fossero dalla legislazione del momento.

A fornirci la prospettiva storica che manca normalmente alla nostra considerazione della proprietà intellettuale basterebbe la storia di John Fisher, pseudonimo del presunto James Frederick Willetts, “re dei pirati” e direttore della People’s Music Publishing Company nell’Inghilterra dell’inizio ‘900, che sfornava spartiti (dots) alle classi popolari servendosi di una rete di venditori ambulanti che li vendevano a prezzi accessibili agli angoli delle strade. Inseguito dai rappresentanti dell’editoria musicale tradizionale e dalla legge, Fisher fu tra i primi a difendere pubblicamente la propria causa in tribunale sostenendo che l’industria musicale pirata avesse un valore sociale oltre che economico e che potesse essere persino considerata un catalizzatore del cambiamento giuridico. Fisher, come possiamo facilmente immaginare, perse, ma uno dei suoi avversari giunse ad ammettere che le sue tesi fossero quasi sostenibili:

” ‘I pirati dicono che i tempi sono cambiati’, osservò. ‘Dicono di aver reso un servigio alla nazione nel diffondere la musica, facendo quello che avrebbero dovuto fare gli editori’ “
(p. 456)

Molto, molto di più si trova nella dettagliata ricostruzione storica di Adrian Johns in Pirateria: storia della proprietà intellettuale da Gutenberg a Google. Un libro che dà molte soddisfazioni ma da leggere con molto a tempo a disposizione e con infinita pazienza, specie se avete fra le mani la sua versione digitale che la Bollati Boringhieri ha deciso con involontaria comicità di mettere in vendita in PDF con un DRM che non consente neppure un solo copia/incolla. Mi chiedo che cosa ne pensi l’autore…

La direttiva contro la società dell’informazione

Giovedì 20 maggio ho assistito alla lezione tenuta da Alberto Musso dell’Università di Bologna su diritto d’autore e internet, purtroppo l’unica a cui ho potuto essere presente del ciclo Lezioni sul diritto d’autore presso l’Istituto Gramsci Emilia-Romagna.
La lezione è consistita principalmente nell’esame della direttiva CE n. 29 del 2001, “sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione”. Non si tratta certo di una novità né io sono particolarmente titolata come giurista ;-), ma penso potrebbe essere utile diffondere i contenuti della lezione per chi non era presente.

Nella legislazione italiana, la direttiva è andata a modificare l’ormai antica legge sul diritto d’autore n. 633 originaria del 1941 (che durante la guerra si pensasse al diritto d’autore è cosa che mi ha sempre lasciato con un punto interrogativo…). Comunque, visto che Normattiva ancora non fornisce i testi di legge precedenti al 1970, si può fare riferimento a questa versione, non ufficiale ma consolidata (cioè comprendente le modifiche successive al 1941) al 9 febbraio 2008.
Tornando alla direttiva, il suo antefatto si può leggere nelle stesse premesse, al punto 15:
“(15) La conferenza diplomatica tenutasi sotto gli auspici dell’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale (WIPO) ha portato nel dicembre del 1996 all’adozione di due nuovi trattati, il “Trattato della WIPO sul diritto d’autore” e il “Trattato della WIPO sulle interpretazioni, le esecuzioni e i fonogrammi”, relativi rispettivamente alla protezione degli autori e alla protezione degli interpreti o esecutori e dei produttori di riproduzioni fonografiche. Detti trattati aggiornano notevolmente la protezione internazionale del diritto d’autore e dei diritti connessi anche per quanto riguarda il piano d’azione nel settore del digitale (la cosiddetta “digital agenda”) e perfezionano i mezzi per combattere la pirateria a livello mondiale. La Comunità e la maggior parte degli Stati membri hanno già firmato i trattati e sono già in corso le procedure per la loro ratifica. La presente direttiva serve anche ad attuare una serie di questi nuovi obblighi internazionali.”
Si parla dunque di anni, come ha più volte ricordato Musso, in cui la rete era vista come una minaccia per gli interessi costituiti nel campo della proprietà intellettuale che, ad esempio, come un’opportunità per il business o per il settore dei servizi. Lo sfondo su cui va compresa l’attuale normativa è quello di una concezione generale tesa a limitare la libertà d’uso dei materiali disponibili in rete, restringendo il numero delle applicazioni di quello che negli USA è chiamato fair use, ovvero l’uso fatto di un’opera per motivi didattici, di ricerca e così via, senza che vi sia concorrenza economica nei confronti di chi detiene i diritti di sfruttamento di quell’opera. La direttiva europea recepisce e aumenta tali limitazioni, focalizzandosi molto più sui diritti dei produttori delle opere rispetto a quelli dei loro potenziali utilizzatori. La protezione viene rafforzata per remunerare gli autori, senza troppa considerazione del fatto, richiamato anche da molti giuristi, che un eccesso di protezione possa frenare un’effettiva distribuzione dei contenuti (sicché gli utilizzatori rischiano di restare… solo potenziali!)
Il professor Musso cita a questo proposito Cultura libera di Lawrence Lessig, ma direi che la stessa impostazione si trova nel più recente Remix: il futuro del copyright (e delle nuove generazioni), lettura anche piacevole e col pregio di coniugare diritto e implicazioni culturali estese che dalla normativa possono derivare. Il punto sta nel rischio di frenare la disseminazione e la produzione futura di contenuti, in particolare nei limiti imposti alla creazione derivata. E’ proprio Lessig la persona che ha fatto notare che, se la Disney non avesse trovato in dominio pubblico opere come Pinocchio, difficilmente avrebbe potuto produrre molte delle sue opere, guadagnarci sopra e finire poi per essere tra i promotori dell’allungamento dei termini del copyright da 50 a 70 anni…
Insomma sappiamo quali cartoni animati non fare vedere ai nostri nipoti!
Quello che alle biblioteche e all’ambito della formazione interessa maggiormente della direttiva sono comunque le eccezioni all’applicazione del diritto d’autore, concetto in qualche misura paragonabile a quello del fair use statunitense. Tali limitazioni sono elencate dalla direttiva in modo esaustivo, cioè non ulteriormente ampliabile, debbono inoltre essere previste per legge e non confliggere con gli interessi economici degli autori. A ciò si aggiunge il fatto che i singoli stati che recepiscono la direttiva possono scegliere quali singole eccezioni accettare e quali no. Tanto per capire quanto questa impostazione sia rigida e restrittiva, l’utilizzo economico è invece definito in via generale, in modo da comprendere ogni possibile futuro tipo di utilizzo delle opere.
Vediamo il diritto di riproduzione.
E’ protetta la riproduzione diretta e indiretta, dove indiretta significa tratta da una copia e non dall’originale. La specificazione riguarda il mondo digitale, in cui la copia da copia riproduce un oggetto identico all’originale, diversamente da quanto accade nel mondo fisico (pensate alle vecchie audiocassette).
Si parla inoltre di riproduzione temporanea o permanente. Temporanea significa anche istantanea, e questo potrebbe andare ad incidere anche sulla mera visualizzazione dei contenuti (ad es. in uno streaming in cui l’utente non avesse neppure l’interesse di fare un download).
Riproduzione in tutto o in parte, e in qualunque forma. In qualunque forma significa, secondo un caso riconosciuto dalla cassazione italiana, ad esempio, anche una fotografia di una scultura. Si rischia quindi di proteggere persino le riproduzioni che utilizzano sistemi semiotici diversi, la cosiddetta riproduzione “eterogenea” (mi chiedo quindi cosa ne sia delle nostre foto di monumenti su Flickr. Certo non pare ragionevole pensare a fotografi amatoriali che si interrogano sulla data di morte dell’autore e ci aggiungono i loro bravi 70 anni… se il diritto d’autore deve funzionare così bisognerà che nell’istruzione di massa si investa veramente di più!)
Per diritto di comunicazione al pubblico si intende qualsiasi forma di diffusione dell’opera, a prescindere dal fatto che il pubblico sia fisicamente presente o solo virtuale. In questo caso la novità introdotta dalla direttiva consiste nell’aggiunta delle modalità di accesso cosiddette non lineari, ovvero che non avvengono come nel caso della trasmissione televisiva tradizionale ma in un luogo e in un momento a scelta dell’utente. Il riferimento è in generale alla rete, e in particolare al P2P. La singola fruizione di un individuo può costituire un “pubblico” (e quindi un’infrazione della normativa) se solo la risorsa è virtualmente a disposizione di molti.
Per diritto di distribuzione (art. 17 della legge italiana) si intende la distribuzione di copie materiali, diritto che, normalmente, si esaurisce dopo la prima messa in commercio. E’ questo il motivo giuridico per cui è possibile rivendere un libro che si è acquistato, o per cui il grossista può rivendere le sue copie alle librerie, rendendo di fatto possibile la circolazione delle opere.
Questo però – a prescindere dai limiti imposti allo scambio fra differenti paesi, per cui ad es. non posso acquistare copie del dvd di Avatar in America e poi rivenderle in Europa – è vero solo per gli oggetti fisici. Nel caso dei contenuti digitali il diritto di distribuzione che in prima istanza è riservato agli autori non si esaurisce dopo la prima messa in commercio. Un ebook, ad esempio, viene venduto con una licenza d’uso e non con un normale contratto di compravendita. Ciò può avere molte conseguenze, dato che la licenza può essere limitata in modi che sarebbero impensabili se applicati ad un libro. Il contenuto digitale, insomma, è soggetto a più vincoli di quello analogico, con implicazioni che forse non riusciamo oggi neppure a immaginare compiutamente (ma ci aiuta sempre Lessig ad esempio nel suo articolo For the Love of Culture, in cui immagina un mondo di contenuti testuali frammentati e assoggettati ad impossibili procedure di richieste di permessi per essere fruiti).
Sempre a proposito di implicazioni per il futuro della produzione culturale, Musso cita l’art. 12 della legge italiana, in cui il diritto esclusivo di sfruttamento è riconosciuto all’autore anche nel caso di opere derivate, come ad esempio traduzioni, adattamenti, compendi, rielaborazioni, trasposizioni cinematografiche e così via. Se ci sembra naturale ricompensare l’autore del romanzo da cui viene tratto un film, pensiamo però a cosa questo significhi nel web, in cui le occasioni di creare opere derivate (spesso senza alcuna potenzialità di entrare in concorrenza commerciale con l’opera originaria) sono infinitamente maggiori che nel mondo fisico. Riporto uno dei miei esempi preferiti di applicazione alla cieca del diritto di autore su un’opera derivata perché possiate farvi un’idea, Kermit ammutolito, un’immagine che ben rappresenta le vette di insensatezza a cui una major incattivita riesce ad arrivare.

Un caso sempre interessante è la cosiddetta eccezione di citazione, cioè la possibilità di fare citazioni testuali da opere protette senza l’obbligo di chiederne il permesso all’autore. Dalla legge italiano essa è riconosciuta per parti dell’opera, a scopo di critica, rassegna o discussione, a patto che non incida sui diritti economici dell’autore creandogli una possibile concorrenza. E’ questo il motivo per cui è legittimo riportare in un blog una citazione tratta da un libro ma, quando si pubblica una riproduzione della sua copertina si compie, dal punto di vista formale, un illecito.
Musso riporta che, secondo la Cassazione, non esiste la possibilità di “citare” un’opera grafica nella sua interezza, mentre ne potrei pubblicare solo una parte. Ci si può fare un’idea di come gli USA, invece, abbiano risolto questo problema guardando il formato thumbnail di Google immagini, riproduzione per intero ma in piccolo formato e scarsa definizione… come a dire fino a qui potete vedere, ma poi “questa opera potrebbe essere coperta da copyright”, come recita la frase di rito che trovate nei risultati di ricerca.
Il caso interessa i non pochi siti web di biblioteche o istituzioni che pubblicano copertine di libri o foto tratte da essi per motivi di promozione e didattica. Molto difficilmente un editore deciderà di farvi causa perché fate qualcosa del genere, ma non è affatto scontato che, formalmente parlando, voi siate dalla parte della ragione. Né il fatto che il libro da cui è tratta l’immagine faccia parte della collezione della biblioteca, né quello di citare la fonte da cui l’immagine è tratta modificano i termini della questione.
A questo proposito, durante la lezione si è levata dal pubblico la voce speranzosa di chi vede una scappatoia dalla rigidità nella pubblicazione di immagini nell’art. 70 della legge italiana.
Musso ricostruisce la storia: alcuni anni fa a Wikipedia Italia fu intimato di eliminare dalle sue voci alcune foto di opere architettoniche che avrebbero appunto rappresentato delle infrazioni al diritto d’autore. In risposta a questa richiesta che aveva suscitato lo sdegno di molti, fu aggiunto all’articolo il comma 1 bis che consente, invece, la pubblicazione di immagini o musiche a bassa risoluzione o degradate, per soli scopi didattici e quindi senza fini commerciali. Al di là della scarsa chiarezza dell’espressione “a bassa risoluzione o degradate”, il comma è stato poi di fatto paralizzato dalla previsione di un decreto che dovrebbe definire cosa si intenda per scopo didattico. Le autorità i cui pareri andrebbero sentiti prima di emettere tale decreto sono così tante che è facile intuire cosa ne possa uscire… il nulla, dato che pare sia possibile sostenere con buone argomentazioni giuridiche che, in mancanza del decreto, la prima parte del comma sia comunque valida, oppure anche il contrario.
Molte le domande da parte del pubblico, costituito in larga parte da bibliotecari, archivisti e studenti. Una ad esempio ha toccato l’interpretazione dell’art. 69 della legge italiana, in cui si prevede che le biblioteche possano fare una copia di audiovisivi in loro possesso (sostanzialmente, pensate al dvd che non volete vedere perso dopo 4 o 5 prestiti). La questione qui è come vada interpretata l’espressione “per i servizi delle biblioteche”, e Musso riporta che l’interpretazione prevalente nella giurisprudenza è che essa si riferisca ai servizi esclusivamente interni, con la conseguenza, ad esempio, che la copia non potrebbe essere data in prestito esterno.
Concludo dicendo solo poche cose.
Che chiunque noti inesattezze in questo resoconto è invitato caldamente a segnalarle nei commenti, perché so che i non giuristi quando parlano di diritto cadono facilmente in un mare di ingenuità. Che modestamente condivido del tutto le preoccupazioni espresse da Lessig e da tanti giuristi con lui su una società in cui si sia costretti ad essere pirati da una legislazione esoterica se non palesemente iniqua. E, infine, che “la direttiva contro la società dell’informazione” non è una mia trovata, ma una citazione che riporto testualmente dal professor Musso (che ringrazio per la chiarezza e il tono con cui ha tenuto la giornata)!

Un’aggiunta. Come sempre questo è un resoconto parziale: va detto che il professor Musso ha esposto i diversi punti di vista sia a favore che contrari ad alcuni degli aspetti citati della direttiva, e sono io ad aver trascritto quelli particolarmente critici. Per un quadro più completo su questi temi ci si può rifare a Del diritto di autore sulle opere dell’ingegno letterarie e artistiche : Art. 2575-2583 / Alberto Musso. – Bologna : Zanichelli, 2008 (sul sito di Zanichelli è possibile leggerne l’indice integrale).
E “la direttiva contro…” è solo un’espressione riportata da una conversazione informale tra giuristi!