25 aprile. In memoria

Il 25 aprile a Bologna è una giornata speciale. Molti ricordano nonni e zii che hanno partecipato alla lotta di liberazione, e io credo che debba essere bello poterlo fare, dev’essere bello poter vivere un momento di celebrazione sentendolo parte della propria vita personale, sentirsi dentro questa linea ininterrotta di scelte di giustizia, e di coraggio.

Il 25 aprile io ricordo la nonna Tina. Tina non era il diminutivo di un altro nome, tanto che la nonna Tina diceva di sé che “l’avevano chiamata come un cane”. Avete già un’idea del suo temperamento. Tina era la figlia di una donna che l’aveva partorita, morendone, nella Predappio di inizio secolo. La Predappio vecchia, ovviamente, quella che doveva sembrare (lo sembra tuttora) un paesino già toscano pur essendo radicata nella durissima Romagna di allora. Immagino che la Predappio nuova, quella che si estende con senso sfuggente nella bassa sottostante, provocando all’attuale amministrazione comunale non pochi problemi di gestione, fosse allora impossibile da immaginare. Quello che immagino io è una distesa di campi, un po’ di bestiame, e povertà distribuita su un popolo di contadini per metà anarchici, e per metà ubriachi di Sangiovese.

La nonna Tina crebbe con la sorella cresciuta dagli zii e si ritrovò in un modo perfettamente naturale a essere una ragazza del Ventennio. Il suo panorama mentale doveva essere diviso fra la mamma che non aveva avuto, la povertà della famiglia, e l’inaspettato e improvviso orgoglio di venire dal paese del duce, quello che in verità i suoi compaesani conoscevano dalla sua giovinezza come “al mat”, un matto che stava però portando alla ribalta quel paesino qualunque. La nonna Tina, a partire dalla nullità delle sue origini sociali, riuscì a fare un balzo che non doveva essere per nulla scontato: venire impiegata all’ufficio postale di Predappio nuova, in quel mondo di costruzioni razionaliste e altisonanti, con strade ampie che dovevano probabilmente dare l’idea di accogliere il futuro.

Tina, giovane come si usava allora, finì per sposare Amedeo. Di famiglia contadina, da bambino Amedeo scendeva dalle montagne di Casola Valsenio, a piedi, con gli zoccoli di legno, per frequentare la scuola elementare. Adulto, avviato a una carriera come ferroviere, bell’uomo che non mancava mai di aggiustarsi il bavero del cappotto davanti allo specchio prima di uscire, Amedeo era socialista (niente di insolito nella Romagna anarchica, dopotutto). Con lui Tina fece un figlio, con lui si trasferì brevemente a Roma (esiste di là una foto dei nonni per strada, col vestito della festa, lei sulle zeppe di sughero, il rossetto stampato sulle labbra, e lui vestito impeccabilmente come un gangster, mio padre piccolo, coi pantaloni corti e l’aria seria). Con lui ha poi vissuto un’intera vita a Bologna, fra un attacco di gelosia e un altro (probabilmente fondati su qualche ragione), fra un litigio e un altro con le vicine di casa (perché il temperamento romagnolo è quello), in una vita quasi borghese e ancora popolana, con qualche rara nostalgia che si esprimeva ogni tanto in un “quando c’era lui” ma che sembrava stemperata dal fatto di aver sposato un uomo di fede socialista, e dagli anni passati, e dal clima ormai così diverso.

Quando Tina era molto vecchia, e aveva già perso il marito, un giorno venne invitata a pranzo dai miei genitori. Per fare conversazione le fu chiesto quale origine avesse una coppetta d’argento, piuttosto vecchia e ormai molto ossidata, che era sempre stata vista a casa sua, casa che per evidenti motivi non era mai stata toccata da copiose eredità. Quando si è vecchi si può dire la verità, e la risposta di Tina fu che quella coppetta l’avevano rubata lei e la sorella (allora capa delle donne fasciste del paese) mentre facevano la raccolta dei metalli preziosi per la guerra. Un doppio colpo: fasciste e anche ladre.

Quando il 25 aprile tanti bolognesi e non ricordano i loro parenti partigiani, io penso alla nonna Tina, fascista per quello che poteva significare per una contadina ignorante essere fascista, e ladra, di quel sano spirito di razzia che può animare la mente di chi non ha avuto nulla. La storia di Tina a me fa tenerezza. Non la posso celebrare. Non condivido quello che è stata da giovane. Ma racconta un pezzo di storia non meno vera di quella raccontata dalle foto in bianco e nero dei nonni, allora ventenni, fin troppo giovani, col fucile, sulle montagne, con un fazzoletto (presumiamo rosso) al collo. La storia è la storia, e non sempre possiamo scegliere chi siamo, o da quale casuale composizione di eventi veniamo. Non è così per noi, non fu così neppure per la nonna Tina.