Il colore celeste, la ceramica, il cambiamento climatico e il turismo in questo paese

Premetto che io, da sempre, detesto il caldo.
Nonostante questo, dopo aver atteso la fine della giornata di ieri che ha segnato i 40 gradi di temperatura a Bologna (evento che io sappia inedito), oggi ho cercato di mantenere fede alla promessa fatta di fare una gita. È una settimana di ferie, resto in città, non faccio neppure una gita? La faccio.

Amo le arti decorative, e le arti tessili che credo si possano considerare parte della categoria. Non è banale essendo cresciuta in Italia arrivare a definire un genere di interesse di questo tipo, perché qui l’arte è l’Arte, quella che si studia a scuola, è la pittura, il monumento. Le più belle mostre che ricordo di aver visto in passato sono invece state, dopo il Francis Bacon a Lugano di un’era fa, i modelli di Yohji Yamamoto alla Galleria del costume di Firenze e, recentissima, l’esposizione del quilter statunitense Joe Cunningham alla manifestazione Verona tessile. Una direzione c’è. Dire che non è facile in Italia focalizzare di avere un interesse particolare per questo genere di arte è strano, se pensiamo che il paese ha avuto una tradizione manifatturiera eccellente in tanti campi. Che cosa ne resta? Molta retorica sul made in Italy, poca, pochissima documentazione sulla sua storia culturale.

(Sono anche influenzata dal fatto che mi sono messa a leggere una rivista inglese che tratta di antiquarito, design d’interni e artigianato artistico con una freschezza che in Italia non ho mai incontrato, e mi pare un peccato).

A Faenza si trova un’eccezione: il Museo della ceramica, che in realtà si chiama Museo Internazionale delle Ceramiche e in modo del tutto legittimo, non trattandosi affatto di un museo di interesse locale basato sulla sola produzione faentina ma di un museo con una collezione dal taglio storico e internazionale, che difficilmente si riesce a visitare per intero in una sola giornata, che organizza competizioni di arte contemporanea e attività didattiche, ha sede in un luogo molto bello che coniuga antico e moderno. Un museo, come dice la mia amica M. che mi accompagna, “che sembra di stare all’estero”.

La nostra gita dunque si avvia con la previsione di salire su un treno per Faenza alle 9.32. Siamo già abbondantemente sopra i 30 gradi e scopriamo che il treno è in ritardo di 30 minuti. Troviamo rifugio dentro i pochi negozi presenti dentro la stazione di Bologna e discorriamo (cioè io infliggo la mia solita conversazione su) il dominio del poliestere e l’eccesso di ribasso dei prezzi nella fast fashion. Finché arriva il nostro treno, un regionale lungo e scassato su una tratta che è sempre piena di gente (c’è il pendolarismo vacanziero verso Rimini e il pendolarismo costante di chi si sposta da un centro all’altro della via Emilia). Col mio occhio clinico di odiatrice del caldo individuo una delle poche carrozze coi finestrini chiusi, e infatti a goderci l’aria condizionata saliamo in un milione di persone e riusciamo a fare un viaggio popoloso ma decoroso.

Condizione della gita era che la meta fosse vicinissima alla stazione di arrivo, cosa che si realizza perfettamente nel caso del MIC. Attraversiamo dunque la strada rovente e arriviamo con la speranza di entrare in un luogo fresco in cui passare un bel pezzo di giornata. Il palazzo è quasi deserto, e scopriamo che l’aria condizionata c’è solo su un piano della struttura, e anche lì con un impianto sottodimensionato rispetto alla grandezza delle sale? Al clima mutato?

Resistiamo. La collezione è spettacolare. Da tutte le parti mi assale la sensazione di quanto sia stereotipata la concezione visiva che ho del passato, quando scopro invece stili, decorazioni e colori che mai mi sarei aspettata (indovinate di che epoca è il set della foto sopra). Le arti che hanno un legame funzionale con la vita quotidiana accorciano le distanze fra noi e chi ha vissuto nel passato in un modo che mi emoziona profondamente. Chi ha visto per la prima volta quel colore, che cosa ne ha pensato, chi ha preso in mano quella tazza? È un cortocircuito della storia che io non riesco a sentire guardando un quadro (o forse sì, ma mi capita solo per i ritratti, guarda caso). Resistiamo, commentiamo nel silenzio delle sale, ma il disagio è forte. Il tasso di umidità e calore sono davvero eccessivi. Usciamo per il pranzo, il solo attraversare la strada verso il bar più vicino pare un’impresa climaticamente improbabile, ma c’è la piadina. Rientriamo al museo con l’idea di restare ancora un po’, ma ci salva solo il dio delle arti decorative che nella sua generosità ha collocato l’unico impianto di condizionamento funzionante davanti alla lunga vetrina che contiene i pezzi che mi piacciono di più, ceramiche europee dal 1900 agli anni quaranta, il mio periodo preferito sempre. Finisce che passiamo tanto tempo davanti a quella vetrina e trascuriamo intere sezioni meno fortunate.

Decidiamo di tornare, chiedendoci se nel weekend il posto sia frequentato da più turisti, come sembra probabile. Ma io immagino anche i tanti stranieri che sbarcano dagli aerei per il loro bel giro in Italia, escono sull’asfalto della pista di atterraggio e all’improvviso sentono quella massa solida nell’aria che assomiglia all’alito di un rinoceronte che sbadiglia davanti alla tua faccia. Saranno davvero contenti di trovarsi in Italia o non vedranno l’ora di rifugiarsi in albergo a respirare aria meno umida? Il treno del ritorno non è in ritardo, in compenso di carrozze con l’aria condizionata ne troviamo… mezza. Io insisto per restare lì e fare il viaggio in piedi piuttosto che sederci in mezzo agli sventurati del sudore, ma dopo Imola anche la mezza carrozza raggiunge (forse per un arcano senso di equità) lo stato delle altre. Fine, l’aria condizionata non c’è e basta. Per fortuna noi scendiamo presto, ma altri no.

Mi chiedo come sarà la gita al museo della ceramica fra cinque anni, fra dieci. Fra venti, quando pezzi del paese saranno piccoli nuclei di deserto che avanza, e le città storiche forse in parte infrequentabili per qualche mese all’anno. Non so dare una risposta, spero nella possibilità del tutto remota che le previsioni sul cambiamento climatico si rivelino sbagliate in qualche punto, che esca un dettaglio importantissimo che ci faccia dire “che fortuna, ci eravamo sbagliati! Non andrà poi così male!” Spero anche nella tecnologia, e nella morte dell’ambientalismo anti-tecnologico. Nel frattempo, vorrei riuscire a vedere più ceramica, più tessuti, più abiti, più gioielli, più arredamento, più patchwork artistico, più di tutto. Spero.

1901-1902 è la data di fabbricazione del set celeste. Io non avrei mai indovinato.

4 pensieri riguardo “Il colore celeste, la ceramica, il cambiamento climatico e il turismo in questo paese”

  1. Sai, io penso che gli oggettivi cambiamenti climatici richiederebbero un cambiamento generale di mentalità e abitudini a livello personale per evitare il crescente disagio che proviamo in occasioni come quella che hai raccontrato. Una parte del problema dipende anche dalle nostre tipiche abitudini italiane di organizzare ferie e quindi viaggi soprattutto nel periodo estivo. Il pensiero e le abitudini collegate all’estate, così come era una volta, ci condizionano ancora molto. Se invece ci abituassimo a considerare l’estate non come l’idilliaco periodo pre-2000 da passare a contatto con la natura ecc. ma come a una stagione ormai poco sopportabile, da passare chiusi in luoghi di lavoro provvisti di aria condizionata, rimandando qualsiasi viaggio e spostamento per diletto in altre stagioni, ecco, sarebbe tutto più ragionevole. Altro ostacolo oggettivo: i contratti nazionali delle amministrazioni pubbliche che concepiscono le ferie per l’estate. Almeno 2 settimane di riposo in periodo estivo + ferie residue da consumare entro giugno.

    1. Credo che l’inerzia mentale per cui si continuerà a chiamare l’estate “la bella stagione” durerà ancora a lungo, anche se poi si passa il tempo a lamentarsene.
      Sì, ovviamente i contratti della PA contengono assurdità anche su questo, cosa che oltretutto penalizza anche i servizi.

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