Generazioni

È una lettura molto interessante quella dell’articolo La mia generazione di Christian Raimo. Lo potete leggere su Minima & Moralia, pubblicato il 27 luglio.

Alcune cose non le trovo del tutto condivisibili: personalmente non avrei il coraggio di chiedere a qualcuno che abbia oggi la possibilità di andarsene dall’Italia di non farlo (ho visto un sufficiente numero di vite sprecate). Trovo un po’ semplicistica la lettura del disagio psichico che viene fatta nell’articolo (ma non nego affatto il peso del contesto sociale su questo genere di problemi, anzi). Penso che l’essere o meno dei privilegiati sia qualcosa di definibile solo a livello individuale, e non generazionale. Ma a parte questo, credo che molti si possano riconoscere in questo scritto o quanto meno possano rapportarsi a esso con una buona dose di senso.

Persino io che sono di una manciata di anni più vecchia e che per questo ho avuto la fortuna e la sfortuna di entrare in quel vicolo cieco che è la pubblica amministrazione attuale. Ecco un altro esempio che manca nell’articolo: oltre alla fabbrica, quello dell’ufficio. Il posto in cui la possibilità di fare qualcosa di utile prende la forma di una convivenza forzata, di un esercizio di compromesso, di una continua ridefinizione dei limiti tuoi e di quelli altrui. Vedo persone più giovani di me che non hanno vissuto questa esperienza (perché hanno lavorato sempre come liberi professionisti sottopagati, focalizzandosi su progetti a tempo invece che sulla crescita di strutture) esplodere poi in rancorosi deliri di onnipotenza individualista. Credo di capire il loro rancore, e credo anche che siano stati doppiamente ingannati. Nessuna fabbrica e nessun ufficio saranno mai luoghi ideali in cui crescere, ma luoghi in cui muoversi come appartenenti a un gruppo, sì.

Per il resto, l’idea del combattere anche per i propri doveri è un’iperbole etica che non mi dispiace. Ma non lo facciamo già?

 

 

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