Oscurare e curare: che cosa ne sarà di Wikipedia, domani?

Ci sono già tantissime prese di posizione e spiegazioni del perché da oggi Wikipedia in italiano sia oscurata (qui c’è il punto di vista della comunità dei contributori italiani, qui e qui spiegazioni da parte di persone interne al movimento, qui una rassegna stampa in fieri dei rilanci giornalistici, qui la discussione interamente pubblica e aperta a chiunque su come sia stata presa la decisione di bloccare temporaneamente l’enciclopedia). Non sono perciò queste cose che cercherò di spiegarvi anch’io, che pure sostengo la protesta.

Io dirò solo che vedo un aspetto forte emergere dai commenti in rete (ad esempio su Twitter), quello del dare per scontato quanto si ha, anche se è relativamente giovane come una *enciclopedia online*. Oscurare Wikipedia crea un sacco di problemi e attira critiche, anche comprensibili. Ma sta di fatto che Wikipedia è lavoro, tanto ma tanto ma tanto lavoro fatto nel corso degli anni da persone usualmente ignote. Wikipedia non è un servizio pubblico, non c’è alcun ente tenuto a garantirla e alcun lavoratore pagato per scriverla. Wikipedia è il miracoloso, zoppicante e perfettibile risultato di tanti grandi e piccoli atti di cura. La rete è questa cosa qui: l’oggetto del nostro lavoro e della nostra cura. Non ce n’è un’altra. Oscurare Wikipedia non è come lo sciopero degli uffici pubblici immancabilmente di venerdì, è quando chi se ne cura decide di smettere di farlo. (Era già accaduto a ottobre del 2011, sempre per protesta contro una proposta di riforma legislativa).

Quando domani, o fra qualche giorno, ricomincerete a poter leggere le voci che vi interessano o che vi servono per fare il vostro lavoro, pensate a Wikipedia come a un tessuto a cui lavorano molte mani, mani concrete di persone concrete. Non datela per scontata, perché tutte le cose che diamo per scontate senza curarle finiscono per spezzarsi e appassire.

 

 

Schegge

Berlin wall 1990Mi chiedi della Costituzione italiana e dei suoi riflessi sull’amministrazione locale. Me lo chiedi in russo, quello che io sono in grado di identificare come russo, magari sbagliando. Parli con una certa sicurezza, sai quello che vuoi, ma parli in una lingua da cui emergono come letteralmente comprensibili solo queste parole, demokratiya, democrazia, comune, konstitutsii, costituzione. Io rispondo in italiano, ripetendo quello che riesco a capire nella speranza di suscitare un cenno di assenso, un accordo possibile. Ma tu hai una tua argomentazione in testa, evidentemente più complessa della mia comprensione, e mi parli, in russo, intercalando con un “capito?” che mi disarma, finché ti rispondo che no, non ti capisco, ma possiamo andare a cercare un libro sulla Costituzione, e sembra andare bene. Sembra che abbiamo trovato un minimo punto comune di accordo, anche se fra le tue parole è apparsa anche l’espressione “bolognara, bolopakistana” che sembra cruciale e che non fa ben sperare sul fatto che io sappia che cosa sto facendo.

Ti accompagno agli scaffali, ti mostro a gesti l’area del diritto italiano, scelgo un libro (in italiano), te lo mostro e tu sembri soddisfatto (leggi l’italiano?). Sorridi, senza perdere la tua espressione sicura, di chi sa quello che vuole, di chi ha una domanda legittima e – per qualche genere di stupefacente ottimismo – di chi è convinto che la risposta si possa trovare, qualunque lingua si parli, compresa l’ipotesi di parlare lingue differenti.

Ti lascio andare a registrare il prestito e non so che cosa provare. La cosa più rassicurante sarebbe pensarti all’interno di una categoria prestabilita: l’utente che chiede un libro che non sarà in grado di comprendere, il caso sociale, il matto. Categorie che chiunque lavori a contatto col pubblico si crea nella mente e usa (in parte giustamente) per orientarsi, e per difendersi dal peso della quantità di cose incomprensibili che possono accadere in una biblioteca pubblica.

Ma la verità è che io non so assolutamente se tu sia un emigrato arrivato in Italia da una settimana o da un anno, un residente in un centro di accoglienza, un ex docente di diritto (dall’età che posso presumere tu abbia, potresti essere inciampato nel crollo dell’Unione Sovietica, avere perso il tuo posto di lavoro, e avere da allora una vita per me inimmaginabile), un cittadino che ha una questione aperta con l’amministrazione locale, o molte altre combinazioni possibili. So solo che parli una lingua che a me sembra il russo, e che vuoi una risposta. Se astraggo dalle mie categorie prestabilite, dovrei notare semplicemente che questa è la tipica situazione in cui un bibliotecario fa reference. Sei entrato consapevolmente in biblioteca, hai un argomento preciso in testa, pensi di trovare un libro utile, chiedi a me, la bibliotecaria, di essere il tuo mediatore.

È difficile non pensare che il reference fosse un’attività concepita per un mondo semplice, ammesso che sia mai esistito, diciamo dunque un mondo più semplice di questo. In cui il sistema in cui erano organizzate le informazioni era il risultato di sedimenti secolari, che avevano portato a quell’insieme composto da opere, editori, carta, formati, strumenti bibliografici, cataloghi, luoghi in cui si trovavano i cataloghi, esperti di questo tipo di mediazione. Un mondo relativamente parlando – relativamente a oggi – piccolo, che predeterminava in modo abbastanza certo quali fossero le domande, o le tipologie di domande, che le persone avrebbero posto in biblioteca sensatamente. E che predeterminava quali tipologie di persone avrebbero messo piede in biblioteca. Un mondo in cui nessuno straniero che non fosse un aristocratico o uno studioso di fama si sarebbe mai presentato in una qualsiasi biblioteca di un altro paese, ad esempio. Un mondo in cui il bibliotecario poteva essere il curatore di  una collezione molto specializzata, e conoscerne nel dettaglio le profondità, le lingue, gli strumenti. A me il tuo accento russo sembra invece qualcosa di inarrivabile ed esotico, e se me ne chiedo il motivo capisco che posso solo aggrapparmi a qualche immagine di film, o a un generico ricordo del mondo prima della fine della Cortina di ferro, qualcosa di situato negli anni ‘70 con tanto di maglie di poliestere, giacche a vento di colori sgargianti, scuole di partito, tassi di scolarizzazione, stufe a legna e negozi mezzi vuoti. Quello che vedo a banco sono pezzi: frammenti di vita, persone che si avvicinano e si allontano, che rivelano e che nascondono, esigenze espresse in un momento di cui non si conosce mai l’esito, come in una marea. Forse il mondo in cui era nato il reference non esiste più.

Nota: mi rendo conto che la mia visione può essere stata influenzata da due libri letti di recente, che consiglio a chi si interessi della storia recente dell’Europa (povera Europa). Si tratta di Sotto una stella crudele di Heda Margolius Kovály e di La casa sul lago di Thomas Harding.